lunedì 9 novembre 2020

I caratteri specifici della conquista normanna dell'Italia meridionale.

Tempo fa lessi un interessante articolo di Giuseppe Galasso sul Corriere della Sera intitolato “Perché il Sud normanno non è diventato nazione come l’Inghilterra” nel quale si ponevano in relazione l’esperienza inglese e quella italiana intorno alla costituzione del rispettivo stato normanno. Passando in rassegna le posizioni di Benedetto Croce e di Albert Frederick Pollard, si riscontrava una sostanziale adesione a una linea storiografica tendente alla rivendicazione di uno spazio autonomo della storia nazionale dei due popoli, inglese e italiano appunto, rispetto alla dominazione normanna la quale, seppur con qualche differenza, pareva essere stata “storia di un governo straniero”. Per il meridione, secondo lo storico napoletano, quest’aspetto assunse un’ulteriore specificità giacché a differenza della controparte inglese in cui a un certo punto il ceto baronale assunse un ruolo di mediatore tra interessi personali e collettivi di un popolo e di uno stato, saldandosi alla monarchia e piegandola a uso della nazione, nell’Italia del sud ciò non avvenne poiché la feudalità si pose sempre in maniera antagonistica allo Stato rivendicando spazi di autonomia e d’individualismo. Tale riflessione, ripresa ma non del tutto condivisa dal Galasso, è stata utilizzata dall’autore per far luce sulle analogie e sulle differenze nella strutturazione delle due monarchie che, in sostanza, avrebbero in comune la dinamica della conquista ossia la netta distinzione tra il momento della violenza e il momento politico. Se il primo coincide con la fase di espansione che comunque si realizzò in modo diametralmente opposto, giacché Guglielmo il conquistatore ottenne l’Inghilterra in pochi anni per mezzo di battaglie campali risolutive mentre la conquista dell’Italia meridionale fu l’esito di un processo più lento ed eterogeneo poiché l’azione militare non fu organizzata e guidata da un solo uomo ma fu condotta da una serie di attori politici spesso in contrasto tra di loro, il secondo si lega alla riorganizzazione territoriale avvenuta per mezzo dell’introduzione del regime feudale.


Sezione dell'Arazzo di Bayeux che descrive con le immagini la conquista normanna dell'Inghilterra



Allo stesso tempo le differenze paiono essere evidenti, prima fra tutte la totale divergenza della situazione socio-culturale entro cui tali azioni di conquista si mossero: da un lato un’Inghilterra ancora socialmente acerba e arretrata in cui la nobiltà normanna poté svolgere il ruolo di egemone rivendicando una superiorità intellettuale e, in virtù di ciò, imponendosi come ceto dirigente e indicando modelli e indirizzi culturali, dall’altro vi era un meridione frammentato politicamente, culturalmente e confessionalmente in cui ogni dominatore, bizantino, longobardo e musulmano,si fece portatore di una civiltà ben definita e ben radicata sul territorio. Si trattava di società superiori per organizzazione politica, economia, tradizione e cultura a quella normanna perciò la conquista sortì l’effetto di assimilare il nuovo ceto dirigente a tali modelli che apparirono molto vantaggiosi ed efficaci anche per gli invasori stranieri. La citazione di Oraziana memoria “Graecia capta ferum victorem cepit” sembra poter essere un’utile chiave di lettura anche per descrivere il peculiare esito della vicenda normanna in Italia meridionale. L'idea di un’originalità essenziale caratterizzante l’instaurazione del potere normanno-svevo per ciò che concerne, ad esempio, la Calabria pare essere riconfermata. Tuttigli aspetti della vita del nuovo stato paiono essere profondamente influenzati daun background culturale troppo forte e stratificato all’interno della società localeper passare inosservato. E, in effetti, si è visto come anche l’introduzione del feudalesimo non corrispose direttamente alla traslazione di un modello autoctono ai conquistatori in un ambiente totalmente estraneo a un simile tipo d’impianto sociale, ma che questo risentì in modo decisivo del peso di consuetudini e istituzioni preesistenti che ne alterarono la struttura originaria producendo un sistema feudale che nulla aveva a che fare con quello francese. Marc Bloch lo avrebbe definito d’importazione. Un simile discorso può essere esteso a tutti i rami dell’amministrazione del regno e soprattutto alla cultura, dove quest’aspetto è stato ampiamente dimostrato attraverso l’analisi dell’architettura sacra e profana, del cerimoniale di corte e del carattere ambiguo tenuto dai normanni nel processo di latinizzazione delle strutture religiose e sociali, mai realmente imposto come indirizzo univoco da seguire ma cooptato in modo non violento secondo quei principi dell’acculturazione dolce che influenzarono, al contrario, anche gli stessi dominatori. Si è anche visto come il carattere “fluttuante” della cultura e questa impossibilità di individuare elementi autenticamente autoctoni dei normanni trova una sua parziale conferma anche nei modi di strutturazione della geografia urbana e nell’organizzazione del sistema difensivo della Calabria:  se è pur vero che alcuni centri furono rifondati, traslati in altra sede o riqualificati e se è altrettanto evidente che nell’allestimento delle difese furono introdotti alcuni elementi di novità, si pensi ai già analizzati castella, bisogna rilevare, in virtù di quanto dimostrato, che sostanzialmente la monarchia normanno-sveva ripresentò alcuni schemi e alcune dinamiche di consolidata tradizione bizantina non apportando decisive modifiche rispetto ai luoghi del potere e del controllo militare. L’analisi della porzione centrale della Calabria ha permesso di far luce sulla strategica funzione svolta da quest’area nel complesso della dinamica della conquista della regione e il suo valore geopolitico è stato dimostrato attraverso una serie di aspetti fondamentali: primo fra tutti la sua centralità durante le prime fasi del dominio normanno comprovata dalla corrispondenza di parte di questo territorio con la provincia miletana e con la città di Mileto, prima vera capitale de facto del potentato normanno e fulcro dell’azione del Granconte. La ricchezza di centri urbani di una certa rilevanza e le crescenti prerogative istituzionali accordate a esse dalla monarchia normanno-sveva possono essere assunte a nuova prova di questo stato di cose: si pensi a Cosenza, addirittura sede della curia regia in età federiciana, Catanzaro, capofila di un territorio destinato a divenire una potentissima signoria feudale sotto i Ruffo, la già citata Mileto, e poi Nicastro, Crotone, Monteleone e Santa Severina tutti centri importanti e strategicamente rilevanti ai fini del controllo territoriale. Il carattere del tutto peculiare della dominazione in Calabria viene a divenire indicativo nel momento in cui la regione, con la fondazione del Regnum, sembra scivolare in una condizione di subalternità politica rispetto alla Sicilia e, venendo a mancare la presenza fisica delle istituzioni, divenne il luogo privilegiato d’attecchimento di una ostinata e antagonistica, in senso crociano, feudalità, sempre più reticente nei confronti di un governo centrale distante e distratto da altri affari e che molto spesso individuerà in quella nobiltà, in quei baroni in costante ricerca di grossi spazi d’autonomia, gli interlocutori privilegiati ai quali demandare le funzioni amministrative. La storia della Calabria in questa fase si può leggere alla luce della storia della feudalità locale e delle cospirazioni che essa produsse nei riguardi del governo. In questo senso il peso politico della regione può essere misurato anche alla luce del peso specifico che le sue città ebbero nella situazione generale delle opposizioni al potere reale. 




sabato 7 novembre 2020

Per una nuova idea di storia

 

Almeno una volta nella vita sarà capitato a ciascuno di noi di trovarci di fronte ad un soporifero libro di storia. Diciamocelo chiaramente. Non importa se quest’incontro sia avvenuto durante gli anni della scuola o all’università, non importa se a farci sbadigliare sia stato un manuale di storia medievale o una particolare sezione di un libro di testo focalizzata su di uno specifico periodo storico, sta di fatto che quell’evento può essere stato determinante o ha contribuito, magari insieme ad insegnati particolarmente pedanti, ai fini dell’idea che ci siamo fatti di questa fondamentale disciplina. Non è raro, infatti, riscontrare pareri molto negativi su di essa: da coloro i quali la reputano noiosa si passa a chi la definisce inutile o addirittura ne mette in dubbio l’utilità. Frasi del tipo: “Che pesantezza!”, “Non mi è mai piaciuta, troppe date da ricordare!”, “ma a che serve conoscere a memoria il nome dei sette re di Roma o l’anno esatto dell’incoronazione di Carlo Magno?” oppure “La guerra dei trent’anni? Che casino!” sono senz’altro diffusissime tra l’opinione pubblica. Prima di maledire questa gente, cari storici o cultori della materia, prima di definirla ignorante ed insensibile cerchiamo di indagarne le ragioni e di sondarne criticamente i fondamenti, non dovrebbe risultarci particolarmente difficile farlo, anche per sana deontologia professionale.
Ad uno sguardo più attento e retrospettivo è possibile cogliere tutta una serie di elementi problematici e di criticità afferenti non tanto ai contenuti o al suo statuto epistemologico, quanto alle modalità e agli strumenti impiegati per trasmettere tali conoscenze. Il problema che la storia deve affrontare, in altre parole, non risiede nella sostanza ma nella forma che tale sostanza assume e cerco di spiegarmi meglio. Prendiamo il caso emblematico della guerra dei trent’anni, un intricato nugolo di conflitti e di guerre combattute nel corso della prima metà del XVII secolo (1618-1648) che, per mole di personaggi, fatti e date da ricordare, non lascia scampo anche al più volenteroso degli studenti. Di fronte al pericolo di essere sommersi da un fiume in piena di date, nomi di personaggi e vicende storiche vi è solo una cosa da fare: cambiare approccio allo studio di questo enorme corpus di informazioni provando a spostare la prospettiva con la quale si prova a studiare quei fatti. Anziché lanciarsi nell’impresa frustrante ed inutile di memorizzazione delle dinamiche storiche è opportuno focalizzarsi sul contesto storico, sociale e culturale in cui si realizzarono quegli eventi, comprenderne i rapporti di causalità ed effetto e cioè quali relazioni un dato avvenimento instaurò con quello immediatamente successivo e, a sua volta, che genere di fattori lo determinarono, giungendo cosi ad una piena comprensione del dato storico nella sua globalità. Sembra quasi banale sottolinearlo ma questo approccio alla storia è capace da solo di ribaltare il giudizio negativo che si può avere sulla disciplina. Si tratta in altre parole di compiere un’opera di materializzazione (mi si passi questo termine pericoloso e soggetto a facile strumentalizzazione) trasformando il dato astratto in dato concreto. Da questo processo, a mio avviso, non si deve prescindere se si vuole contribuire a restituire una nuova idea di storia ma, soprattutto, non può esimersi dal farlo chi insegna la disciplina. E’ il caso di dire che a salvare questa scienza non sarà la trasmissione dei contenuti ma la metodologia per mezzo della quale verranno trasmessi e il modo attraverso cui verranno esperiti e studiati. La tendenza al nozionismo e alla semplificazione, sempre presenti nella trasmissione dei sapere storico devono essere abbandonati in favore di una visione di più ampio respiro che punti su di un approccio globale e su di un’etica del contesto in grado di ricollocare la disciplina nel posto che più le si addice: tra gli uomini. Riuscire in una simile impresa sarebbe già il principio di una piccola rivoluzione. “La storia”, ha scritto March Bloch in quel bellissimo libro che è “L’apologia della storia”, “è la scienza degli uomini nel tempo”, il suo oggetto è, dunque, l’uomo nel suo progredire, nel suo morire, nel suo vivere, nel suo fabbricare e nel suo soccombere ai prodotti del suo lavoro, nel suo organizzarsi in società e nel suo distruggere le società altrui. Circoscriverla ad una sequenza meccanica, quasi ritmata, di date e di successioni di fatti, schematizzarla senza mai problematizzarla equivarrebbe a mortificarne i fondamenti stessi delegittimandola nella sua funzione originaria: quella di parlare all'uomo dell'uomo.
 

I caratteri specifici della conquista normanna dell'Italia meridionale.

Tempo fa lessi un interessante articolo di Giuseppe Galasso sul Corriere della Sera intitolato “Perché il Sud normanno non è diventato nazio...